Approccio all’inflazione

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Quando si sceglie di investire worldwide in titoli indicizzati all’inflazione, potrebbe sembrare seducente favorire unicamente i mercati che manifestino tassi reali elevati, oppure ricercare il rendimento semplicemente attraverso un allungamento delle scadenze , o lasciando aperto il rischio di cambio.
Il metodo di valutazione invece richiede un approccio più elaborato, attraverso l’approfondimento di una serie di fattori. Gli investitori dovrebbero indagare a fondo sulle forze che agiscono dietro la definizione di tassi reali, considerando le politiche delle banche centrali, il rischio di credito e i fattori strutturali, prima di affrontare una decisione di investimento in questo tipo di asset class.

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Gli Stati Uniti ad esempio, pur non essendo tra i paesi a elevati tassi reali, è da considerarsi attrattivo in termini di investimento in titoli inflation linked, per una serie di fattori: la banca centrale, con lo scopo di riequilibrare l’economia negli anni post crisi, ha favorito per lunghissimo tempo tassi reali negativi; più di quanto il mercato poteva lecitamente aspettarsi. Secondariamente in USA il livello attuale dell’inflazione è molto basso, se confrontato con il livello storico dei tassi.
La nomina poi del governatore Yellen potrebbe far propendere per una maggiore tolleranza verso livelli più elevati di inflazione futura, ponendo come obiettivo primario la lotta alla disoccupazione.
Oltre alla semplice analisi dei tassi reali, occorre esaminare la correlazione tra questi ultimi e la crescita reale del GDP.

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Come si può notare dal grafico, le valutazioni sul tasso reale possono spesso divergere dalla rispettiva crescita del GDP. Ci sono diverse ragioni per questa divergenza, alcune cicliche, altre di natura strutturale.
Le politiche delle banche centrali innanzitutto sono le maggiori cause per cui numerosi paesi sviluppati hanno tassi reali molto al di sotto del loro GDP. La politica monetaria ultra accomodante, unitamente alla forward guidance e agli acquisti di asset sul mercato, hanno compresso per anni i tassi nominali vicino allo zero e cercato di alzare le aspettative di inflazione, favorendo il sentiero di tassi reali molto bassi.
Il rischio di credito è un secondo fattore da esaminare. Gli investitori richiedono tassi reali più elevati per compensare il rischio percepito di un eventuale default. Il caso emblematico è rappresentato dall’Italia: I tassi italiani sono circa il 2,3% più elevati rispetto ai tassi espressi in Germania, nonostante la crescita del GDP italiano si decisamente asfittica.
Il premio liquidità: gli investitori dovrebbero sempre considerare la liquidità del proprio investimento e richiedere un premio aggiuntivo per gli asset meno liquidi. I titoli legati all’inflazione sono generalmente meno liquidi dei corrispettivi bond nominali.
Ogni analisi sulla tipologia di titoli che stiamo esaminando deve naturalmente tenere conto della breakeven inflation, che molto dipende dalla credibilità della banca centrale nel gestire le aspettative di inflazione ed in parte dalla percezione su potenziali ripartenze o interruzioni nella crescita del GDP.

Sostanzialmente, ogni manifestazione di giudizio riguardo al mercato degli inflation linked, sul paese, la divisa e il posizionamento sulla curva, richiede l’analisi di numerosi fattori di mercato ed economici.

La sfida alla deflazione

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Tutte le maggiori Banche Centrali sono impegnate nella battaglia alla deflazione. La Banca del Giappone è impegnata a porre fine una decennale deflazione, annunciando un obiettivo del 2% del tasso di inflazione, impegnandosi a raggiungerlo utilizzando la più grande e aggressiva leva monetaria della sua storia. Il risultato lusinghiero è stato passare da un livello di deflazione dell’1,5% ad un livello zero.

Le altre banche centrali dovrebbero seguire l’esempio del Giappone, coordinandosi nell’acquisto di maggiori asset con lo scopo di stimolare la domanda interna, evitando quello spiacevole inconveniente dei movimenti erratici delle monete che invece avremmo se solo una o non tutte le banche centrali procedessero nell’attività di monetizzazione.

Se le aspettative di inflazione fossero aumentate a livello globale, i tassi di interesse reali e i salari reali diminuirebbero e la crescita della domanda globale inizierebbe un percorso di recupero.

Le banche centrali, specialmente la BCE, ha assoluto bisogno di smettere di preoccuparsi di una possibile bolla degli asset e ad un futuro problema di inflazione, e cominciare a preoccuparsi invece dell’arrivo della deflazione.

Il faticoso gioco a ping pong della FED riguardo al tapering non fa altro che incrementare le possibilità che l’economia Americana torni a ristagnare, sotto la spinta del peso fiscale e monetario, e ritornare sul sentiero di crescita recessivo attorno all’1%.

La BCE deve riconoscere che il suo mandato è la stabilità dei prezzi, ciò significa sì evitare un percorso di alta inflazione, ma anche cercare di evitare una futura e potenziale deflazione.

Le banche centrali dovrebbero cominciare a parlare su come agire se l’economia globale ritornasse ad indebolirsi rispetto a quanto ci si attende, invece di discutere solamente su come rimuovere lo stimolo se l’economia crescesse a ritmi più robusti. Potrebbero così evitare un eventuale brutto colpo per il 2014.

Verso la guarigione

Cappella_brancacci,_Guarigione_dello_storpio_e_resurrezione_di_Tabita_(restaurato),_MasolinoVediamo brevemente gli spunti operativi per il 2014…

I mercati azionari dei paesi sviluppati (Europa e Stati Uniti) presentano ancora un potenziale rialzo. Nel 2014 la FED dovrebbe essere la prima a ridurre le iniezioni di liquidità; è ipotizzabile che questo processo sia accolto positivamente dai mercati perchè l’economia è in via di guarigione.

I paesi sviluppati continueranno però a beneficiare delle cure ricostituenti delle banche centrali e le economie, così come i mercati, proseguiranno verso la normalizzazione, il che dovrebbe favorire ancora le azioni nel corso dell’anno.

L’anno prossimo ci attendiamo inoltre un ciclo di crescita più maturo grazie alla prevista ripresa del commercio mondiale e al recupero della spesa per investimenti da parte delle imprese. Più che un ritorno al periodo 2006-2007, ci attendiamo un nuovo ciclo di crescita, questa volta più equilibrato e duraturo, trainato dalle imprese e dai loro investimenti.

Negli Stati Uniti si rafforza il processo di reindustrializzazione, imperniato sul new deal dell’energia, mentre l’Europa e il Giappone avanzano sulla via della ricostruzione. Per quanto riguarda i paesi emergenti, sarà necessario ribilanciare i consumi e gli investimenti nonchè migliorare la competitività. In questo scenario le banche centrali favoriranno la ripresa e staranno attente a non ritirare il loro appoggio troppo presto.

Le azioni si confermano la classe di titoli preferita. Le azioni europee dovrebbero offrire le migliori performances, poichè i premi al rischio hanno un forte potenziale di ribasso. Inoltre le azioni europee sono scambiate ai minimi della loro fascia di oscillazione storica. Dopo un decennio contrassegnato dall’exploit dei paesi emergenti e delle materie prime, assisteremo a una inversione di tendenza e i mercati azionari dei paesi sviluppati dovrebbero generare le performances più sostenute.

Relativamente alle obbligazioni, i tassi a lungo termine dovrebbero continuare a salire, sopratutto negli Stati Uniti. Il segmento delle obbligazioni governative rimane poco allettante; solamente il comparto delle obbligazioni societarie high yield offre ancora un potenziale di rendimento allettante per il prossimo anno, grazie ad un considerevole effetto cedola. Occorre comunque preferire le durate corte.

 

Fuori dal coro

Tutto è già scritto, molto è stato detto. Ormai è cosa risaputa, il destino dei tassi e del mercato dei bond è già segnato. Il movimento “secolare” dei bassi tassi di interesse sulle obbligazioni sta per volgere al termine. C’è però uno spiraglio, un’analisi fuori dagli schemi attuali che può portarci alla conclusione opposta, cioè che il ciclo dei bassi rendimenti non è affatto terminato, e anzi continuerà per parecchio tempo ancora.

Sotto questa prospettiva diversi fattori giocano a favore di questa teoria:

  • Diminuzione o assenza di pressioni inflazionistiche
  • Rallentamento della crescita del PIL
  • Indebolimento dei fondamentali sui consumi
  • Politiche monetarie e fiscali anticrescita.

Un’inflazione sostenuta è, ed è sempre stata, il prerequisito per un’incremento dei tassi di interesse a lungo termine. sg2013072233537Un indicatore molto seguito dalla FED, il deflatore della spesa per consumi, rimane su livelli minimi, addirittura sui livelli più bassi degli ultimi 50 anni. Altro fattore che aiuta a calmierare l’inflazione è l’apprezzamento del dollaro (+14% dal 2011) e la discesa del prezzo delle materie prime (-20% dal 2011). Un dollaro forte riduce i prezzi delle importazioni, e quando ciò accade, i produttori domestici sono forzati a fare la stessa cosa. Non vi sono evidenze quindi di inflazione più alta, e tutte le forze che contribuiscono a crearla, sono assenti.

Se analizziamo la crescita del PIL nominale, siamo ai livelli più bassi mai registrati all’inizio di ogni fase di contrazione dal 1948. La crescita del 3,3% registrata nell’ultimo anno è inferiore ai livelli di PIL registrati ad ogni inizio di una fase recessiva.

Il grafico seguente illustra la differenza tra il rendimento dei Treasury e il PIL nominale. Esso è importante per due aspetti: Primo, quando i tassi sui bond salgono più rapidamente del tasso di crescita del PIL (come sta avvenento in questa fase), le condizioni monetarie diventano un freno alla crescita economica.sg2013072237337 Tale situazione si è verificata prima di tutte le fasi recessive dal 1950. In secondo luogo il differenziale tra tassi a lunga e crescita del PIL è un barometro che misura la propensione al rischio: propensione ad investire in attività reali, legate alla crescita del GDP come le azioni, quindi più rischiose, oppure investire in Treasury, attività a basso rischio. Più è elevato il differenziale, minore è la propensione al rischio.

Anche in casi in cui non si è verificata una recessione, come nei due casi degli anni ’90, il differenziale bond/GDP è salito velocemente. In entrambe le occasioni, la preformance dei bond l’anno successivo all’evento, è stata stellare.

I consumi non hanno ancora raggiunto i livelli pre-crisi. Il livello standard di vita negli USA è immutato dal 1995. La redditività derivante dal detenere un’abitazione, non compensa salari più bassi e un livello di tassazione più elevato.

Le politiche monetarie attuate post crisi, cioè le varie operazioni di quantitative easing, hanno avuto come conseguenza diretta un aumento dei tassi a lungo termine. Durante ogni fase di espansione del bilancio i tassi sono saliti. Questo perchè la FED non può controllare i tassi a lungo termine, essendo questi influenzati dalle aspettative di inflazione e non dalla domanda e offerta di titoli. Quando la FED compra, il detentore di Treasury vende perchè ritiene che la mossa di politica monetaria espansiva sia inflazionistica, e i tassi salgono. Viceversa, nel caso di arresto del programma di riacquisto.

Conclusioni:

Possiamo considerare questa visione come fuori dal coro unanime, che vede ormai come inevitabile e duraturo un rialzo dei tassi sui principali mercati obbligazionari. Probabilmente i fattori analizzati, a parità di condizioni, contribuiranno a frenare questa tendenza. Solo una ripartenza sostenuta del ciclo economico, guidata da una forte domanda interna, potrebbe abbattere uno dopo l’altro i paletti che sostengono questa teoria.

 

Quota 100

936802-moneta-dorata-del-circuito-integrato-di-simbolo-di-yen-su-priorita-bassa-biancaLa divisa Giapponese ha superato una barriera psicologica contro dollaro per la prima volta da quattro anni, ponendo le basi per un ulteriore indebolimento della valuta, peraltro visto come una manna per gli esportatori Giapponesi e per l’economia in generale.
Per mesi lo Yen ha stazionato in prossimità della soglia dei 100 per dollaro, poi nella tarda serata di ieri ha infranto la magica soglia. I traders affermano che il trigger della debolezza è da ricercarsi nelle stop losses scattate nel tardo pomeriggio, riposizionamenti che hanno scatenato la vendita della divisa Giapponese, ed il contestuale acquisto di dollari Usa.
Sostanzialmente la debolezza dello Yen contro le maggiori divise è cominciata a Novembre 2012, da quando il premier Abe ha dichiarato guerra alla deflazione e a due decenni di stagnazione, per ridare slancio al paese.
La svalutazione repentina ha incrementato i profitti degli esportatori giapponesi e scatenato un rally massiccio sul mercato equity, con il Nikkei 225 in rialzo del 40% quest’anno !!!.
Ulteriore debolezza della divisa è attesa nei mesi a venire, con un’inflazione in aumento, mercato azionario e prezzi delle abitazioni in crescita. Ma a che prezzo?
Una massiccia e repentina svalutazione potrebbe far incorrere nelle ire dei partner commerciali del Giappone, man mano che i propri esportatori diventano più competitivi. Gli investitori e i traders si aspettavano questa rottura di livelli, dopo che nelle scorse settimana la Banca Centrale Giapponese aveva annunciato il massiccio programma di acquisto di asset.
La rottura di questi livelli apre la porta ad un calo ulteriore dell’ordine del 5% e alla possibilità di vedere Y110 per la fine dell’anno. Ripercussioni politiche permettendo.