La strada è segnata

USALa riunione del FOMC di questi giorni sarà probabilmente di transizione, per dare tempo alla banca centrale di raccogliere ancora qualche dato macro prima di intraprendere la strada della riduzione degli acquisti.

Analizziamo alcuni temi cruciali, il cui andamento si dovrà necessariamente muovere in sintonia con le proiezioni effettuate il mese scorso dalla FED.

  • Mercato immobiliare
  • Mercato del lavoro
  • Inflazione
  • Crescita

Analizziamo brevemente il quadro di queste quattro variabili:

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La vendita di case, sia nuove che esistenti è in aumento graduale, ma costante.

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I tassi sui mutui salgono, ma in prospettiva storica si mantengono su livelli bassi

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I prezzi delle case sono in graduale ascesa

Le previsioni per i dati relativi all’occupazione di luglio, dovrebbero essere in linea con lo sviluppo degli ultimi mesi. Se confermate ad agosto e settembre, dovrebbero essere ritenute sufficienti, e soddisfacenti, al fine di intraprendere il sentiero di riduzione degli acquisti.

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L’inflazione continua a restare sotto l’obiettivo di lungo termine del 2%

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Aspettative di inflazione ancora ben ancorate

Come nota il FOMC, per ora le aspettative di inflazione sono ben ancorate. La previsione di crescita in accelerazione nella seconda parte dell’anno, dovrebbe scongiurare il rischio di eccessiva disinflazione.

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Condizioni finanziarie espansive e tassi di interesse bassi, danno stimolo diretto alla domanda aggregata

Un mercato del lavoro in miglioramento, insieme a condizioni finanziarie espansive danno supporto alla previsione che i consumi possano accelerare, dopo un primo semestre frenato da una restrizione fiscale record.

Analizzando il quadro di queste quattro variabili, possiamo concludere che la riduzione degli acquisti da parte della FED possa realizzarsi a settembre. Nel complesso i dati  dovrebbero infatti permettere alla banca centrale di confermare la ripresa moderata, in linea con le proprie proiezioni macro. Il terreno sarà così pronto, e i mercati anche, per una possibile riduzione degli acquisti.

Dicotomia

untitledDa dove proviene la liquidità che alimenta i mercati azionari? Il grafico sovraesposto compara l’andamento dell’indice americano azionario S&P 500 con l’indice del “Carry Trade”. Questo indice rappresenta il ritorno dell’investimento che si ottiene acquistando futures delle divise ad alto tasso di rendimento e andando short delle divise G10  (tra cui euro, dollaro, yen,franco svizzero, ecc…), notoriamente divise rappresentative di paesi con bassi tassi di interesse. Fino a maggio di quest’anno è facile notare una totale correlazione tra andamento dell’indice equity e l’indice carry trade. In sostanza gli operatori si finanziavano in divise a basso rendimento per investire la liquidità su mercati azionari e mercati emergenti.

Qualcosa però recentemente si è inceppato nel meccanismo: Il carry trade, a seguito dei timori di rialzo dei tassi americani, è in fase di smontamento. Il mercato azionario però è rimasto lassù, ben sostenuto. Da dove arriveranno allora le risorse liquide che occorrono per mantenere in alta quota i mercati azionari?.

In parte ci si finanzia ora con la vendita di obbligazioni, principalmente dei paesi core, che hanno rendimenti ormai inferiori all’inflazione.

Le socièta quotate pongono in essere buy back di azioni proprie con lo scopo di sostenere le quotazioni e creare ulteriore valore per gli azionisti. Ponendo in essere operazioni di questo genere, utilizzano la liquidità di cassa di cui dispongono, sottraendola in parte agli investimenti aziendali.

Oppure, il mercato azionario si dovrà adeguare alla temporanea carenza di liquidità e intraprendere un ridimensionamento delle quotazioni, almeno fino a quando la rotazione tra mercato obbligazionario e azionario, non sarà più evidente.

Fuori dal coro

Tutto è già scritto, molto è stato detto. Ormai è cosa risaputa, il destino dei tassi e del mercato dei bond è già segnato. Il movimento “secolare” dei bassi tassi di interesse sulle obbligazioni sta per volgere al termine. C’è però uno spiraglio, un’analisi fuori dagli schemi attuali che può portarci alla conclusione opposta, cioè che il ciclo dei bassi rendimenti non è affatto terminato, e anzi continuerà per parecchio tempo ancora.

Sotto questa prospettiva diversi fattori giocano a favore di questa teoria:

  • Diminuzione o assenza di pressioni inflazionistiche
  • Rallentamento della crescita del PIL
  • Indebolimento dei fondamentali sui consumi
  • Politiche monetarie e fiscali anticrescita.

Un’inflazione sostenuta è, ed è sempre stata, il prerequisito per un’incremento dei tassi di interesse a lungo termine. sg2013072233537Un indicatore molto seguito dalla FED, il deflatore della spesa per consumi, rimane su livelli minimi, addirittura sui livelli più bassi degli ultimi 50 anni. Altro fattore che aiuta a calmierare l’inflazione è l’apprezzamento del dollaro (+14% dal 2011) e la discesa del prezzo delle materie prime (-20% dal 2011). Un dollaro forte riduce i prezzi delle importazioni, e quando ciò accade, i produttori domestici sono forzati a fare la stessa cosa. Non vi sono evidenze quindi di inflazione più alta, e tutte le forze che contribuiscono a crearla, sono assenti.

Se analizziamo la crescita del PIL nominale, siamo ai livelli più bassi mai registrati all’inizio di ogni fase di contrazione dal 1948. La crescita del 3,3% registrata nell’ultimo anno è inferiore ai livelli di PIL registrati ad ogni inizio di una fase recessiva.

Il grafico seguente illustra la differenza tra il rendimento dei Treasury e il PIL nominale. Esso è importante per due aspetti: Primo, quando i tassi sui bond salgono più rapidamente del tasso di crescita del PIL (come sta avvenento in questa fase), le condizioni monetarie diventano un freno alla crescita economica.sg2013072237337 Tale situazione si è verificata prima di tutte le fasi recessive dal 1950. In secondo luogo il differenziale tra tassi a lunga e crescita del PIL è un barometro che misura la propensione al rischio: propensione ad investire in attività reali, legate alla crescita del GDP come le azioni, quindi più rischiose, oppure investire in Treasury, attività a basso rischio. Più è elevato il differenziale, minore è la propensione al rischio.

Anche in casi in cui non si è verificata una recessione, come nei due casi degli anni ’90, il differenziale bond/GDP è salito velocemente. In entrambe le occasioni, la preformance dei bond l’anno successivo all’evento, è stata stellare.

I consumi non hanno ancora raggiunto i livelli pre-crisi. Il livello standard di vita negli USA è immutato dal 1995. La redditività derivante dal detenere un’abitazione, non compensa salari più bassi e un livello di tassazione più elevato.

Le politiche monetarie attuate post crisi, cioè le varie operazioni di quantitative easing, hanno avuto come conseguenza diretta un aumento dei tassi a lungo termine. Durante ogni fase di espansione del bilancio i tassi sono saliti. Questo perchè la FED non può controllare i tassi a lungo termine, essendo questi influenzati dalle aspettative di inflazione e non dalla domanda e offerta di titoli. Quando la FED compra, il detentore di Treasury vende perchè ritiene che la mossa di politica monetaria espansiva sia inflazionistica, e i tassi salgono. Viceversa, nel caso di arresto del programma di riacquisto.

Conclusioni:

Possiamo considerare questa visione come fuori dal coro unanime, che vede ormai come inevitabile e duraturo un rialzo dei tassi sui principali mercati obbligazionari. Probabilmente i fattori analizzati, a parità di condizioni, contribuiranno a frenare questa tendenza. Solo una ripartenza sostenuta del ciclo economico, guidata da una forte domanda interna, potrebbe abbattere uno dopo l’altro i paletti che sostengono questa teoria.

 

Il prodigio americano

142633922-ac1f1755-398a-49bf-ae78-a97913bd505fL’impennata della spesa pubblica e la contrazione delle entrate fiscali hanno determinato enormi deficit fiscali negli anni 2009 e 2010.

La grande recessione ha inferto un duro colpo all’economia statunitense, che alla fine del 2009 aveva perduto circa 9 milioni di posti di lavoro. Questo impatto, unitamente al ribasso senza precedenti degli utili aziendali ( e di conseguenza del gettito fiscale), all’ingente spesa legata allo stimolo fiscale, ha creato un enorme buco nel bilancio federale, che nell’esercizio 2009 ha toccato il record del dopoguerra a 1.400.000 miliardi di dollari, ovvero circa il 10% del Pil Statunitense.

Tuttavia da allora l’economia USA ha creato quasi 7 milioni di posti di lavoro e gli utili aziendali hanno sorpassato i massimi storici; il che ha permesso alle entrate federali di recuperare terreno. Alla rapida contrazione del deficit hanno contribuito anche l’aumento delle aliquote fiscali e la riduzione della spesa pubblica, legata alle leggi sul controllo del budget e tagli automatici alla spesa. Secondo le stime, le misure intraprese e le leggi vigenti dovrebbero ridurre il deficit a soli 642 miliardi di dollari entro la fine dell’esercizio fiscale corrente, da 1,1 miliardi appurati alla fine del 2012!!! Si tratta del minor livello di deficit dal 2008 e pari solamente al 4% del Pil federale.sg2013071741415

Ciò dovrebbe favorire la stabilizzazione del rapporto debito/Pil; infatti alla luce di questi sviluppi, le agenzie di rating hanno rivisto al rialzo, da negativo a stabile, l’outlook di lungo termine sul debito statunitense.

Sebbene il disavanzo dovrebbe continuare a ridursi nell’anno 2014, il “fiscal drag” associato alle decisioni prese all’inizio dell’anno, dovrebbe iniziare ad attenuarsi dando slancio alla crescita.

Operativamente, la contrazione del deficit comporta diverse implicazioni di rilievo:

  • Maggior slancio alla crescita: il drenaggio fiscale frena l’espansione, tuttavia la capacità di tenuta dell’economia statunitense si sta dimostrando prodigiosa, ed è indicativa di un potenziale di crescita molto più consistente in futuro.
  • Minori rischi politici: il progresso fatto sul fronte del deficit potrebbe dare al Tesoro maggiore spazio di manovra e scoraggiare uno scontro tra i partiti in tema di tetto sul debito.
  • L’aumento dei tassi: Gli ultimi dati sul disavanzo fanno apparire il programma di riacquisto di titoli da parte della Fed, sempre più eccessivo. L’offerta riassorbita dalla banca centrale fa aumentare il rischio di un forte ridemensionamento dei mercati obbligazionari nel momento in cui il programma verrà ritirato.

 

 

 

 

 

 

 

La compressione artificiale

Dovremo presto fare i conti con livelli di tassi di interesse decisamente più alti rispetto al recente passato. Il consensus generale per i tassi a 10 anni sui Treasury americani è stato unanimemente fissato al 2,75% dalla maggioranza degli analisti; livello stimato per la fine dell’anno e conseguenza diretta dell’azione restrittiva annunciata dalla Fed.

Ma il livello di arrivo dei tassi potrebbe essere più alto di quello attualmente stimato. In questo ambito stiamo assistendo ad una fase di consolidamento, ma in autunno vedremo probabilmente la seconda fase del rialzo, che potrebbe spingere il decennale americano fino al livello del 3,25%.

Il tasso a 10 anni americano ha toccato il livello minimo dell’1,63% il 2 maggio di quest’anno. Livello raggiunto sulla scia del disastroso dato sulla disoccupazione di marzo, di dati macro deludenti e timori relativi al fiscal drag, conseguenza dei tagli automatici alla spesa pubblica. consolidamento-debiti-2Il livello del 2,75% è stato recentemente toccato, dopo che la Fed ha sottolineato la strategia di riduzione dello stimolo. Il dato rassicurante sulla disoccupazione a giugno ha solidificato la convinzione del mercato che la Fed comincerà il tapering in settembre.

E’ indubbio che il rialzo dei tassi sia primariamente dovuto alla normalizzazione della curva a termine, deliberatamente tenuta compressa dai vari QE della banca centrale. In una pubblicazione del Luglio 2012, prima dell’inizio del QE3, la Fed stimava che gli acquisti sul mercato secondario avrebbero abbassato di 65 bps il rendimento dei treasury a 10 anni

Successivamente il QE3 ha ulteriormente compresso la struttura a termine del decennale di ulteriori 10 – 20 bps. La compressione totale dovuta alle varie operazioni di riacquisto di asset è così stimata in 75 ≈ 85 bps.

Assumiamo che il livello di equilibrio dei treasury sia quello del 2%, cioè quello rilevato nei primi due mesi del 2013, depurato quindi da alcuni elementi di disturbo, quali il fiscal drag e il timore di rallentamento del ciclo economico (fine 2012). Avremo così che il livello attuale dei tassi (2,75%) prezza perfettamente la compressione “artificiale”, che la Fed aveva favorito negli anni degli acquisti sul mercato secondario (QE).

Se ora assumiamo che il quantitative easing non è più necessario perchè l’economia si sta rafforzando, il mercato del lavoro sta migliorando, il mercato delle case è in ripresa, e la situazione europea è in via di stabilizzazione, allora il livello attuale del 2,75% potrebbe essere troppo basso per i mesi a venire.

Il target risulta forse scioccante, ma il 3,25% sui tassi a 10 anni in un contesto storico, non ha nulla di strano. Sono stati rilevati in passato spread tra fed funds e tassi a lungo termine anche di 400 bps e generalmente questi picchi sono stati raggiunti proprio prima che la Fed iniziasse la manovra effettiva di rialzo dei tassi ufficiali.

Offresi protezione

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Le due Banche Centrali che la scorsa settimana hanno rilasciato dichiarazioni univoche, la BCE e la BOE, hanno voluto lanciare un chiaro messaggio interplanetario: vi proteggeremo e proteggeremo la nostra idea di politica monetaria dall’azione della Fed.

Come già evidenziato, quello che si vuole evitare è l’effetto trascinamento del rialzo dei tassi che sta avvenendo negli Stati Uniti, sulla curva, o meglio sulle curve europee.
Quanto un irrigidimento della curva Usa, cosiddetto steepening, ha effetto sulla curva europea?

Sulla base di dati storici, la parte a lunga della curva core (Bund) subirebbe il 60% del movimento dell’omonima curva americana. Quindi se noi stimiamo il tasso a 10 anni treasury muoversi verso il 3,5% per la metà del 2014, il corrispettivo tasso sui Bund si assesterà nell’intorno del 2,25%.

In se, tale movimento non costituirebbe un problema; il vero effetto nocivo sarebbe la trasmissione del movimento al rialzo dei tassi anche sulle curve periferiche, con conseguente incremento del costo del funding e per un l’effetto restrittivo trasmesso al settore privato.

La BCE vuole evitare, e farà di tutto per evitarlo, che i paesi periferici possano soffrire un qualsiasi fenomeno di restrizione monetaria, prima che questi siano usciti dalla prolungata spirale recessiva in cui sono ancora immersi.
Questo scenario si profilerà, quando il funding a basso costo, inteso come funding a medio lungo termine, sarà di nuovo disponibile per le aziende di credito,.
Ed è per questo motivo che non è da escludersi fra poco tempo, per la fine dell’anno diciamo, una ulteriore LTRO.

Un’operazione questa volta studiata per alleviare una mancanza di liquidità che potrebbe venire meno proprio in concomitanza della ripartenza del ciclo economico e aiutare così le imprese di piccole e medie dimensioni (SME) a superare il primo gradino di una ripresa economica prevista proprio per quel periodo. Un aiuto supplementare per non lasciare il sistema bancario privo del carburante primario, utile al rilancio dell’attività economica in una fase delicata del ciclo produttivo.

L’uscita è distante…

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Le parole non costano nulla. Oggi Mario Draghi è riuscito a raccogliere il consenso unanime del consiglio direttivo della BCE, per offrire al mercato la “forward guidance” sui tassi di interesse.

Oggi è stato introdotto un ulteriore linguaggio per rendere chiaro che la politica monetaria rimane accomodante e che i tassi rimarranno al livello attuale o più basso di quello attuale.
È nella conferenza stampa che è stato introdotto l’elemento di maggiore novità: Draghi ha reso noto a tutti che l’intenzione è quella di pilotare nel futuro i tassi di interesse, comunicando la possibilità di assistere ad un ulteriore abbassamento dei tassi ufficiali di riferimento.
Questo aspetto consente alla BCE di ottenere il diretto controllo delle aspettative sui tassi di interesse; lo scopo è quello di guidare le aspettative sui tassi di interesse verso il basso.

Si tratta di un grande cambiamento rispetto al recente passato, dove la Banca Centrale Europea si limitava ad affermare che tagli dei tassi erano in agenda e la situazione veniva monitorata da vicino. Oggi questa retorica è stata un poco stravolta, i toni si sono fatti più decisi ed è stato esplicitamente fornito un target futuro per la curva dei tassi.
L’obiettivo è quello di appiattire verso il basso il livello della curva. Infatti è ciò che è avvenuto sul mercato negli istanti successivi alle comunicazioni del governatore, con i tassi fino a 3 anni più bassi di circa 20 bps egli spread sui periferici in restringimento. L’euro ha subito perso quota contro il dollaro USA, e i numeri di domani sull’occupazione potrebbero favorire questo trend al ribasso.

La retorica utilizzata oggi consentirà alla BCE di mantenere il mercato lontano dal prezzare una normalizzazione dei tassi troppo presto. Atteggiamento che diventerà via via più rischioso se i dati macro confermeranno un lento miglioramento del ciclo economico: allora le parole pronunciate oggi verranno immediatamente testate dai mercati e il tono utilizzato dovrà inevitabilmente divenire più soft.
Probabilmente già verso la fine dell’anno assisteremo ad una modifica del linguaggio: l’uscita è ancora lontana, ma il momento di comunicarla si avvicina sempre più…

Independence day

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Il 4 Luglio prossimo si riunisce, come di consueto, il board della Banca Centrale Europea, nella giornata in cui, oltreoceano,  i mercati saranno chiusi per la nota festività.

Sarà un meeting probabilmente che segnerà la presa delle distanze tra Fed e BCE, non solo perché quel giorno sarà per noi lavorativo e per gli Stati Uniti no, ma perché con ogni probabilità Draghi rimarcherà come la exit strategy per l’Europa sia ancora molto distante, ponendo l’accento sull’inesistente inflazione, il nervosismo dei mercati e i persistenti rischi di downside.

Non solo il tono potrebbe confermarsi estremamente accomodante, ma sono probabili degli interventi verbali rivolti al mercato, al fine di calmierare i rendimenti della zona euro, dopo i recenti movimenti verso l’alto.

Le paure per l’inizio della manovra restrittiva da parte della Fed hanno infatti causato un’impennata dei rendimenti dei titoli governativi (e non solo) di tutta la zona euro e causato un generalizzato, anche se non drammatico, restringimento delle condizioni monetarie. Negli ultimi giorni, si è assistito a un parziale rientro verso la normalità, soprattutto per i rendimenti della periferia,  ma il campanello d’allarme oramai è suonato a Francoforte.

In generale, quello che verrà rimarcato sarà che la BCE e la Fed in questa fase hanno delle politiche monetarie che viaggiano su differenti binari, riaffermando che le direttive di politica monetaria rimarranno accomodanti per tutto il tempo necessario. Il messaggio che dovrà risuonare chiaro riguarda il livello dei rendimenti della zona euro, che dovrà rispecchiare la situazione economica, anche di ogni singolo stato, ma non deve essere influenzata da shock esterni.

I rendimenti dei governativi europei notoriamente non sono un target di politica monetaria, ma è ormai chiaro che erratiche turbolenze in questo ambito, potrebbero mettere a repentaglio gli obiettivi di politica monetaria, facendo riaffiorare le tensioni sulle condizioni di funding delle banche e a catena rischi al ribasso per le condizioni economiche e la stabilità dei prezzi.